La definizione dei ricordi (di viaggio)

Di Parigi, i negozi aperti fino a tardi, dove comprare baguette, orangina e jambon da consumare nella stanzetta dell’hotel a due stelle scarse, oppure le colazioni a croissant e panini infilati di nascosto nello zaino per il pranzo. Ancora, la Tour Eiffel a piedi, con il fiatone e il capogiro, e i ristorantini cinesi che sbucavano all’improvviso dietro i piccoli parchi cittadini. Di tutte le volte che ho visto Parigi il viaggio che ricordo con più affetto è sempre il primo, nell’estate della maturità, l’anno dei mondiali – allora come ora, con l’eco della canzone di Venditti – ed era Italia ’90, avevamo trascorso le sere di giugno a ripassar diritto a casa del prof, con la tv accesa sulla partita, e poi a luglio il primo viaggio da sola. Un anno dopo, la prima "avventura" nell’Africa vicina ed economica della Tunisia, il deserto, e le oasi, le notti a Douz con il golfino sulle spalle e le volpi del deserto posate nel grembo da nomadi poveri ma fieri. A seguire, il Marocco con i suoni e i colori della piazza principale di Marrakech, i serpenti danzanti, l’odore delle spezie.

Della Grecia, resta la vergognosa comodità della visita su una nave da crociera, non importa se le cabine erano dirimpetto motore, una volta fuori ti trattavano da gran signore. Di allora, anche la nascita di una frase diventata d’uso comune tra gli amici, lo "stipendio medio del greco" come farlocca pietra di paragone, definizione proveniente da una guida di Rodi, erano gli anni in cui gli stranieri misuravano l’Italia a colpi di spot via satellite dell’"investitore tipo" in fondi comuni, inutile spiegare che noi non eravamo davvero così..

Sono seguite, in ordine, la prima vacanza invernale, in una Vienna spazzata del vento, quattro giorni costellati di cioccolate calde e puntate in Stephansdom Platz, o a lasciar nuvole di vapore sulle vetrine del Sacher Hotel; un viaggio nel nord della Francia in auto, armati di crackers e scatolette da consumarsi rimirando il mare dalle scogliere di Etretat, o sperduti in visita ai castelli della Bretagna (ma esistono?) o della Loira.

Le città d’Italia, e puntate in Egitto a più riprese, tra cui un viaggio di nozze tra le antichità e qualche natale tra i pesci e i coralli.

Un gran tour in Messico, ispiratore di magici racconti di lune e di amuleti, le ombre sulle pietre a richiamare antichi spiriti di serpenti piumati, i cenote e il campo della pelota nascosti tra gli alberi e le pietre divorate dal verde, iguane che parevano appostate al sole da ere, oppure marine così trasparenti che i fenicotteri parevano sospesi a mezz’aria – acque che diventa facile comprendere l’istinto primordiale della piccola testuggine appena sgusciata dall’uovo.3_1

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454350097xsabxq_phDi Stoccolma, nel ‘99, ricordo la stanchezza dei primi tre mesi di gravidanza, la fatica delle passeggiate serali lungo i canali, poi Oslo e le enormi statue di Vigeland di donne dalle curve piene che abbracciavano bambini, uomini, vecchi nel Ciclo della Vita. (La macchina fotografica senza rullino di riserva e un sacco di snapshot sulla videocamera Supervhs presto inservibile). O ancora, i calzoni corti e il freddo delle gite in barca nei fiordi, le giacche a vento stropicciate sempre a portata di mano. Il Kon Tiki e il salmone. Le compresse effervescenti di ferro. Le sardine crude con salsa di pomodoro nei vassoi per la colazione. Ancora, al ritorno, la tappa quasi obbligata alla fabbrica della Carlsberg. L’immedesimazione nella sirenetta che osserva l’orizzonte marino. Il passaggio attraverso Amburgo e il giro per i canali sotto l’eclissi quasi impossibile da fotografare (mettevamo le lenti degli occhiali da sole davanti all’obiettivo). Il libri di Ammaniti letti viaggiando.

Ancora, dal fresco nord al sud del deserto, le prime fotografie digitali perse in un hard disk rotto e mai recuperate che hanno reso quelle dune le più belle del mondo nel ricordo – l’altra sera immagini di "Velisti per caso" con una jeep lanciata a 130 all’ora nel nulla mi hanno improvvisamente ricordato il ificato che davo al termine Mal d’Africa (ora l’eco è di Battiato). Africa è anche vedere Sharm quando ancora è un paesello e tornarci con un bambino quando è triplicata, centuplicata, il viale illuminato a giorno. Andare all’Hard Rock tutti quanti e godersi coca cola con cannuccia. Aver paura di non poter rientrare con l’aereo per via di una varicella in corso.

Stamattina, in bagno, ho ritrovato il catalogo Bravo e l’ho aperto sull’immagine a tutta pagina di un elefante. Descrizione di un safari fotografico in Tanzania che avrei voluto imprimere nel ricordo dell’estate ’99 (quella della gravidanza), poi le vaccinazioni richieste lo impedirono. La sensazione che neppure quest’anno sarà il momento giusto, bambini desiderati o paure infondate.

Alla fine di tutta questa lungaggine, per scrivere la quale ho anche riaperto nostalgica l’armadio contenente gli album fotografici, mi sono fatta una domanda.

Quanti anni dovranno passare dall’estate del 2006 perché io possa rievocarla con dolcezza e una punta di malinconia?

P.s. La canzone di accompagnamento voleva inizialmente essere Viaggi e miraggi di De Gregori, poi il titolo dato al post ha automaticamente richiesto La descrizione di un attimo dei Tiromancino.

20.06.2006


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8 commenti su “La definizione dei ricordi (di viaggio)

  1. Direi che se il camion sbanda e si rovescia, quel cane non sarà poi stato così innocuo…

    Misputoinfaccia, ci sei o ci fai?

  2. misputo in faccia, ottimo materiale per Dagobertis, glielo dico.

    Vigeland. Ho sempre avuto una insana passione per lui, secondo me è sottovalutato dalla critica. Il parco a Oslo è notevole. A molti non piace, dicono che le sue figure hanno una aria rettiloide.

    Si, mi mandi la mail per inserire musica? grazie, ciao

  3. Mi sa che dovrò chiedere al Prof. Dagobertis come si fa a non iniziarsi a un’insana passione per un uomo che ha un’insana passione per Vigeland. Intanto ti mando la mail con il codice.

  4. E poi è tutto il pomeriggio che penso al quella definizione, “rettiloide”. ma dove, e perchè? Son forme tonde, piene, avvolgenti. Sensuali, vitali. Non capisco il rettiloide.

  5. C’era una tipa svedese che mi aveva detto le forme di Vigeland hanno qualcosa di rettilesco. In effetti questa osservazione non è del tutto peregrina: il suo modellato non è classico, nè nelle proporzioni nè nella anatomia. Molto plastico, invece; una grande ricerca nel senso del movimento e tattile della superficie: però appunto questa “fluenza”, un po’ liquida, può essere associata a qualcosa di “rettiloide”.

    P.s.: quest’ultimo termine, invece, è usato da un folle predicatore inglese di cui non ricordo il nome, che sostiene che al potere oggi c’è una razza malvagia, i “rettiloidi” appunto. Ciao.

  6. Però… che foto licenziose…

    Avevo perso le tue tracce,

    non ho più avuto tue notizie!

    Forse la mia mail è risultata inopportuna?

    Io speravo solo che il tuo trasloco non fosse definitivo.

    Ciao

    Francesco

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